Un’abile strategia tra pieni e vuoti

Renato Barilli

Un’abile strategia tra pieni e vuoti

Nella mia ormai lunga carriera di presentatore di mostre d’arte mi sono valso in genere di un metodo che quasi mai mi ha portato fuori strada, ho cercato cioè di individuare di volta in volta, subito in partenza, il motivo o spunto o impulso dominante cui poi l’artista in questione si è attenuto nel corso della sua intera attività. Mi affretto a precisare che questo motivo originale e primario molto spesso si articola in più facce, ovvero dà luogo a una sorta di equazione a più variabili, non basta insomma rintracciare un unico filo conduttore, giacché il più delle volte questo si articola, biforca, e dunque anche la risposta deve imboccare strade multiple. Se mi pongo un quesito del genere davanti all’opera di Romana Spinelli, nei molti decenni della sua alacre attività, trovo appunto uno slancio primario, che però subito dopo partorisce dal proprio interno una spinta quasi di segno contrario. L’ampio catalogo qui apprestato, in cui deliberatamente si va oltre l’occasione fornita da una singola mostra per offrire piuttosto una “opera omnia”, o giù di lì, ci permette di scorgere che un simile bisogno assolutamente iniziale sta nell’impulso a estirpare dal reale quanto più si può, in fatto di dettagli, di particolari anche accessori e marginali, procedendo in questa direzione in modo addirittura indifferenziato e occasionale. Questo avviene nel primo tempo della pittrice, lungo gli anni fine ’40-primi ’50, quando è ancora sotto l’impronta ricevuta da Corrado Corazza, erede quindi di una Felsina pictrix addirittura ante-guerra, intenta a praticare un tardo impressionismo però già carico di cariche espressioniste. Sotto una simile costellazione Romana saccheggia avidamente la realtà appunto in tutte le direzioni: vedute urbane, paesaggi, spiagge, perfino ritratti, pescati nella cerchia degli affetti familiari, nella cui elaborazione rivela doti penetranti. Ma già in quelle prime prove non tarda a scattare una seconda spinta, quasi antitetica alla precedente, che poi non la abbandonerà lungo tutti i passi e passaggi consecutivi, entrando in rapporto dinamico con l’impulso iniziale e stabilendo un efficace rapporto dinamico nei suoi confronti. Si parte cioè da un “tutto pieno”, da un asporto quasi indifferenziato dei molti dati di natura incontrati sul proprio cammino, cui però per contraccolpo subentra una tendenza di segno opposto a sfoltire, a introdurre alveoli, momenti di vuoto, di pausa, onde far respirare un intrico altrimenti eccessivo e che rischierebbe di soffocare rimanendo vittima della stessa ingordigia cui inizialmente si è abbandonato. Forse a questa stessa coppia dinamica assolutamente dominante, è opportuno anche affiancare una metafora di più immediata evidenza. Diciamo dunque che la nostra Romana è come una ortolana, o in accezione più elegante, una giardiniera, che sa bene che le piante, se vogliamo custodirne e prolungarne il rigoglio, devono “respirare”, da qui la necessità di introdurre nella loro pienezza certi giusti momenti di margine, di respiro. E’ straordinaria l’abilità, per quanto forse non del tutto consapevole, con cui la “prima” Spinelli va a procurarsi questi momenti di vuoto o di respiro nella altrimenti ossessiva tessitura dei dati desunti dalla realtà. Se si tratta dei ritratti, la sua attenzione è attratta dai bottoni dei soprabiti o comunque delle vesti indossate dai familiari in posa, e del resto anche i dati fisionomici più caratteristici si addensano nel volto, mentre attorno infittisce come in una morsa l’assedio degli elementi ambientali. Se si tratta di marine, emergono le cabine erette a protezione dei bagnanti, o gli scafi delle imbarcazioni da diporto. Se sono aie di campagna, a introdurre l’effetto desiderato ci pensano dei prosaici corpi di galline. Se si tratta di case, la soluzione è facile, abbiamo muri e pareti pronti ad aprirsi a organetto, in questo costante tentativo di catturare spazio, ma anche, nello stesso tempo, di imprimergli pause e sospensioni, cui contribuisce perfino la biancheria stesa ad asciugare.

Presupposti del genere mettono Romana perfettamente in grado di accogliere la poderosa predicazione scaturente da Francesco Arcangeli e dal suo “Ultimo naturalismo”, che invitava a portarsi a un livello di percezione profonda della realtà, con inevitabile scomparsa dei profili di cose e persone che siano troppo aneddotici e descrittivi. Era anche un modo di prendere congedo dalle tentazioni anteguerra di specie tardo-impressionista o para-espressioniste, ma permaneva pur sempre un convinto riferimento alla realtà, dato che il “tutto pieno” raggiungibile in quella immersione in profondità faceva comunque apparire un mondo stipato di terriccio, capace di alimentare una vegetazione lussureggiante, ma favorendo nello stesso tempo proprio il rischio di un soffocamento per mancanza di ossigeno. Come riuscire a ridare possibilità di respiro, a quella massa di humus altrimenti in sofferenza per il suo stesso eccesso di accumulazione-compressione? Ci può servire più che mai la metafora della abile giardiniera, che con preveggenza va a seminare nel fecondo terremo dei fiori tali da aprirsi con corolle ampie, capaci di farsi largo, come primule, campanule. Devo ammettere che per definire la sottile strategia della nostra coltivatrice ci vorrebbe qualcuno più esperto di me in botanica, Certo è che, per effetto di un simile trattamento, la massa greve della natura naturans si apre, dischiude, partorisce dal suo seno stesso momenti di distensione, di allargamento, conditi anche da buone dosi di grazia, di squisitezza. E’ chiaro che Romana non seguirà mai gli eccessi “ultimonaturalistici” di un Morlotti, di un Mandelli, di un Vacchi, troppo carichi e unilaterali. Siamo insomma invitati a immergerci in un enorme sottobosco, dove tra lo spessore delle foglie morte occhieggiano, a seconda delle stagioni, i petali deliziosamente colorati delle viole o dei ciclamini.

Ma la nostra artista procede anche oltre, non si limita a inoculare i suoi alleggerimenti per interposto strumento, affidandosi cioè alla collaborazione di sementi adatte allo scopo. Sa bene che il bravo giardiniere-ortolano deve rimediare con interventi più decisi e anche artificiali, per esempio inserendo vialetti, bordi di aiuole, muretti divisori e quant’altro della medesima specie, il tutto rivolto al fine di far respirare l’intrico vegetativo, di accordargli opportuni momenti di pausa. Oppure, invece che agire dall’interno del tessuto, lo si può fare anche dall’esterno, attraverso una potatura di rami, o semplicemente sfrondando, sforbiciano le foglie che si protendano troppo in fuori col loro rigoglio. In altre parole, e sempre procedendo in via figurata, ci vuole l’aiuto di cesoie, o anche solo di quei gesti di limitata violenza infantile che stanno del sfogliare i rami troppo carichi mettendo a nudo la delicata trama sottostante.

In proposito, è necessario introdurre nel discorso il ruolo del disegno. Se quando affronta la natura nel suo rigoglio totale la nostra pittrice si vale delle materie cromatiche classiche, dall’olio alla tempera, non ignora certo anche il ricorso al disegno, che corrisponde in misura perfetta al momento in cui l’agronomo, prima di affrontare direttamente la massa vegetale, comincia a imporle mentalmente delle linee divisorie, sempre al fine di tutelarne la crescita stessa, così come un fuoco non si alimenta a forza di combustibile aggiunto, ma conviene piuttosto irrorarlo con buone dosi di ossigeno. Fuor di metafora, la nostra abile giardiniera, prima di intervenire in diretta, disegna con l’esile trama del disegno tutta una serie di sentieri, margini, linee di frattura. Ci starebbe anche un’altra metafora, quella della brava cuoca che, ottenuto un impasto continuo, distesa sul tavolo una vasta “sfoglia”, interviene poi sapientemente ritagliandone porzioni, magari affidate a un intelligente geometrismo in apparenza contrario al carattere organico di quella superficie quasi vivente, ma in realtà rivolto, al solito, ad evidenziarla, a valorizzarla per contrasto. Infatti la nostra metaforica ortolana-giardiniera sa bene che il rigoglio della vegetazione non è perenne, e dunque conviene intervenire concentrandola, come si fa col fieno, raccolto in balle solide e compatte, suscettibili anche di essere spostate. Soprattutto negli anni centrali della sua attività, i ’70 e ’80, la nostra Spinelli procede proprio a questo modo, diventa decisamente violenta nei confronti di quel muro vegetale che peraltro lei stessa ha voluto ed eretto, e dunque va a prelevarlo a blocchi, magari accostandolo ad altri blocchi, caratterizzati da diverse specie vegetali. E’ il momento in cui l’artista si concede un massimo di arbitrio, rispetto al suo materiale che fin lì aveva preso per il giusto verso, accarezzandone il pelo, mentre ora si arroga il diritto di produrre spostamenti, a prendere un blocco debitamente compresso accostandolo a un altro, procedendo cioè con la tecnica dell’assemblaggio. In questi giorni possiamo fruire di una fortunata serie televisiva di “gialli” consumati in campo enologico che ci ha appreso come anche i cognac più rinomati siano il frutto di abili assemblaggi. Ebbene, qualcosa del genere si può dire anche nel caso della Spinelli, che dopo i vari prelievi istologi ne provoca degli “accoppiamenti giudiziosi”, come si trattasse di ottenere delle enormi tarsie. Oppure, sempre con riferimento ai grandi cicli delle stagioni, sappiamo bene che in vista dell’inverno occorre comprimere il foraggio, sottoporlo a uno stoccaggio conservativo. L’ordine geometrico razionale si impadronisce della sostanza essenzialmente irrazionale quale è data dai foraggi messi in salvo, ma questi non rinunciano al diritto di evidenziare i loro caratteri residui, che il procedimento di conservazione adottato non è riuscito a cancellare. Riflettendo su questa saggia combinazione tra disordine natural-organico e tracce di un intervento ordinatore affidato a un geometrismo essenziale, mi è venuto fatto altra volta di riferirmi a certe operazioni della Land Art. Il paragone può apparire incongruo, dato che la Nostra ha sempre agito a livello virtuale, sul foglio di carta dei disegni e delle tempere o sulla tela degli oli, ma in definitiva il suo modo di intervenire non è molto lontano da quello dell’olandese Jan Dibbets che traccia sulla sabbia di una spiaggia dei solchi morbidi, e poi li lascia cancellare da un graduale montare della marea. Oppure ricordiamoci di Richard Long che compie lunghe passeggiate su un territorio accidentato lasciandosi alle spalle, come il Pollicino della favola, dei sassi, delle pietre, a disegnare il percorso compiuto.

Il riferimento al ritmo delle stagioni, ritornando alla Spinelli, vale anche in altro senso: come prudente coltivatrice, non esita a mettere in salvo le biade seppur sottoponendole a costrizioni artificiali, ma per altro verso accetta i toni fulvi, arrossati, violacei dell’autunno, e dunque le sue stuoie vengono invase da quei colori accesi, in contrasto con i verdi acidi e pungenti che sprizzano da quella stessa vegetazione quando è il momento della sua piena fioritura, primaverile o estiva.

Tuttavia il riferimento alla diacronia spontanea delle stagioni, col loro dispiegarsi dalla primavera fin verso l’inverno, non si addice del tutto al percorso della Spinelli, sembra quasi che la sua decisione, giunta all’ultima fase della sua attività, sia stata di sostare in una eterna estate. Ha quasi preso congedo dallo sfondo clorofilliano cui era stata fedele a lungo, lasciando che al suo posto si diffondesse una illuminazione solare dominante, dilagante, contro cui, però, a contrastarle il passo, oppure, diciamo meglio, a dar forza al suo potenziale bruciante, si sono parati proprio gli oggetti che nel primo tempo introducevano i loro momenti di intervallo, di sospensione. Non più erba generica, bensì mazzi di fiori. e anche umili oggetti provenienti dal più familiare corredo domestico, addirittura le pantofole, oppure la biancheria stesa, proprio a quel sole abbagliante, chiamato anche a dare un lustro scintillante ad altri aspetti del mondo organico, per esempio ai pesci, con le loro scaglie argentate. O ai crostacei, con i loro gusci di rosso rubino. In ogni caso, non si sfugge al destino, alla chiamata che ogni artista autentico trova iscritto nel proprio DNA, nel segreto genetico, nella scatola, non nera ma anzi intensamente luminosa che si reca dietro. Romana Spinelli è rimasta fedele fino alla fine al gioco dialettico tra un principio energetico invasivo, dominante, contro cui però, a sfidarlo, o invece a incrementarlo si parano oggetti, elementi individuali, sottoposti al dilemma se venire cancelli da quella pioggia benefica, o al contrario esaltati, come i tizzoni in fiamme che brillano di luce più intensa un momento prima di spegnersi per sempre.